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Opinione - Finisce l'incubo di Sinner, ma la decisione mette a nudo l'incongruenza della Wada

Jannik Sinner
Jannik Sinner DAVID GRAY/AFP
L'accordo per la squalifica di tre mesi tra Sinner e la Wada fa felice un po' tutti ma, lontano dall'essere una sentenza giusta, è piuttosto una decisione politica che serve all'organismo antidoping per riaffermare il suo potere.

L'incubo è finito. La spada di Damocle che pendeva sulla sua testa si è dissolta con una stretta di mano. Jannik Sinner e la Wada hanno trovato un accordo che accontenta entrambi. Una decisione che limita i danni al tennista e fornisce all'Agenzia mondiale antidoping  la sua giustizia, o almeno la sua idea di giustizia, che si traduce in realtà nell'affermazione del suo potere nelle decisioni in materia. 

I soggetti coinvolti pongono fine a una vicenda che poteva portare lunghi strascichi, danni per la carriera del tennista e feroci critiche per un organismo che per la sua egemonia e la poca trasparenza (si vedano i casi degli atleti russi o dei nuotatori cinesi) resta comunque nel mirino.

Il tennista numero 1 del mondo perderà 1600 punti (quelli accumulati lo scorso anno tra Miami e Madrid), continuando con tutta probabilità a mantenere il primo posto in classifica al suo ritorno, mentre la Wada avrà la soddisfazione di aver fatto rispettare le sue regole.

La classifica ATP
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Si può parlare di giustizia? Non proprio. È piuttosto una decisione politica. Nel suo comunicato la Wada "accetta la spiegazione fornita dall’atleta riguardo alla causa della violazione", che "il sig. Sinner non aveva intenzione di barare" e che "la sua esposizione al Clostebol non ha fornito alcun beneficio in termini di prestazioni", tuttavia - e qui la spiegazione della squalifica - "un atleta è ritenuto responsabile della negligenza del proprio entourage". E conclude "considerando l’unicità dei fatti di questo caso, è stata ritenuta appropriata una sospensione di tre mesi". 

In definitiva la Wada è consapevole dell'estraneità di Sinner alla vicenda ma "si vede costretta" a punirlo per la negligenza del suo entourage. Ammettendo "l'unicità dei fatti di questo caso", ovvero la sua novità per la giurisprudenza, sceglie così, visto il "patteggiamento" dell'atleta, di applicare una sanzione di compromesso. 

Una decisione che probabilmente non accontenterà i giustizialisti più accaniti, e anche un po' invidiosetti (vero Kyrgios?) che speravano in una lunga squalifica, eccitati dalla morbosa fantasia del "re nudo" e da principi etici che riscoprono soltanto quando si tratta degli altri, mentre i difensori della prima ora e tutti i fan la considereranno comunque una macchia ingiusta nella carriera dell'atleta. Emblematiche in questo caso le parole del presidente della Fitp Angelo Binaghi: "È la prima volta che una vergognosa ingiustizia ci rende felici". 

L'imposizione della squalifica conferma il potere assoluto della Wada, che vedendosi scavalcata in un caso così in vista dall'agenzia antidoping del tennis che aveva corroborato le sue 33 pagine di spiegazione col parere di illustri scienziati, ha voluto impugnare la faccenda per dimostrare chi comanda. Di questo si tratta, senza troppi eufemismi. 

La speranza è che questo organismo che dalla creazione del 1999 ha preso sempre più potere si renda conto che con laboratori sempre più efficienti e in grado di rilevare quantità infinitesimali di sostanza dopante, pertanto anche da contaminazione accidentale, certe "punizioni" potrebbero essere oggi fuori luogo. 

La lotta al doping nello sport è sacrosanta e merita tutti gli sforzi possibili per salvaguardarne il senso e la vita degli atleti, ma le esagerazioni rischiano di essere un danno per tutti. Così come le lotte di potere.

Marco Romandini - Caporedattore Diretta News
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